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Spesso sentiamo parlare di “sforzo adeguato” riferito all’impegno nella pratica. Eppure ci viene detto di essere gentili, di avere cura, di non prendere la meditazione come se fosse una gara a ostacoli. L’idea di sforzo ha a in sé a che fare con lo stringere i denti, tirare i muscoli, con un ritmo, persino una postura che non sono naturali, col rischio di entrare in uno stato prestazionale di delusione e giudizio se questa prestazione non corrisponde allo standard che abbiamo immaginato. Meglio allora affidarci all’entusiasmo, dal greco [en] dentro [thèos] dio. Avere il dio dentro. Entusiasmo suggerisce uno stato che viene naturale, che ci arricchisce perché ci mette in sintonia con quella energia e con ciò che abbiamo di più caro. Provate a pensare a un ballerino o a un musicista: per poter esprimere la propria arte serve un impegno costante e un addestramento. Quando questo viene a coincidere con la natura profonda dell’artista, la fatica, le ore di studio, le cadute e le ricadute si dissolvono e possiamo vedere il ballerino volteggiare sul palco o il musicista incantarci col suo strumento, come se fossero stati creati esattamente per quel preciso momento, come se non potessero fare altro che quello, essere tutt’uno con la loro forza, con l’energia e l’entusiasmo di esprimere quella natura autentica. È come se, ad un cerro punto, la loro pratica prendesse il volo, con naturalezza. Come se quel “divino” che hanno dentro trovasse la strada per uscire ed esprimere una bellezza che inonda chi li sta a sentire o a guardare. È un dono. Il cuore della pratica è esattamente questo: come un fiore di loto che nasce dal fango, coltiva le condizioni perché dalla confusione e dalla fatica quotidiana nasca l’entusiasmo per una vita di cura e piena di significato.